giovedì 25 novembre 2010

Logiche...











Da quando scrivo per la televisione succede spesso che qualcuno - un regista, un editor o un produttore - davanti a una mia obiezione nei confronti di qualcosa che mina la logica del racconto, mi dica questa frase: "Ma nei gialli televisivi non torna mai tutto." Con la variante: "Se tutto dovesse essere logico non si farebbero più gialli in televisione." Come a dire: metti due morti in più - una delle richieste più gettonate - e consegnaci la sceneggiatura, invece di preoccuparti di questioni di logica.
Queste frasi le sentivo spessissimo quando mi occupavo di Rex e mi capita di sentirle ancora oggi. Ma non le ho mai sentite da nessun editor della "Sergio Bonelli Editore". Quando scrivevo "Nick Raider" dovevo sudare le proverbiali sette camice per soddisfare il rigore logico di Renato Queirolo secondo cui, in una storia, deve tornare tutto e il pressapochismo è uno dei principali nemici della scrittura.

domenica 21 novembre 2010

Psychoville
















E mentre qui da noi, RAI e Mediaset continuano a propinarci serie come: "Terra ribelle" - di cui anch'io sono in parte responsabile - e "Il peccato e la vergogna", la BBC, ha prodotto e mandato in onda nel 2009 un oggetto misterioso e sgradevole - nel senso buono del termine - come "Psychoville".
Ne ho avuto notizia da Sandrone Dazieri e, immediatamente, sono corso a recuperarlo.
La partenza è quanto di più semplice (e banale) si possa immaginare: a cinque persone che vivono in diverse parti dell'Inghilterra, arriva una busta chiusa con un sigillo di ceralacca. Dentro, vergate a mano con calligrafia ottocentesca, sono scritte solo cinque parole: "I know what you did", "So che cosa hai fatto."
I cinque personaggi che ricevono la missiva - tutte raffigurate nella bellissima locandina che vedete qui sopra e che da qualche giorno fa bella mostra di sé nel mio studio - sono, rispettivamente: un clown con un uncino al posto della mano che terrorizza i bambini durante le feste di compleanno per cui viene assunto, un vecchio cieco ossessionato da una linea di pupazzi di peluche di cui è il più grande collezionista vivente, un'ostetrica convinta che suo figlio si sia reincarnato in un vecchio bambolotto male in arnese, un serial killer ritardato con madre ossessiva a carico e un nano, un tempo attore di film porno e ora impegnato a interpretare Mammolo in una sgangherata e ridicola piece su "Biancaneve".
Quello che li accomuna è che, anni prima, sono stati tutti internati nel medesimo manicomio, dove è stato commesso un brutale omicidio.
La lettera e l'omicidio sono, in realtà, solo un pretesto narrativo per raccontare le storie di questi personaggi che sembrano usciti da un "Freaks show" ottocentesco: tutti decisamente ributtanti e sgradevoli, almeno all'inizio.
Ben presto ad essi si affiancheranno altri characters all'altezza: una copia di laide gemelle siamesi che passano la vita a comprare e a vendere oggetti su e-bay, un medico che ha scoperto da poco la sua vera vocazione... e una coppia di diabolici quanto improbabili amanti.
Se all'inizio si rimane spiazzati e perplessi per il tono sopra le righe e per la facilità con cui la serie passa dalla farsa, al dramma, dall'horror al comico, piano piano si inizia ad entrare nelle storie di questi personaggi, grazie a una sceneggiatura sempre all'altezza, a una recitazione spumeggiante - Reece Shearsmith e Steve Pamberton, i due sceneggiatori, interpretano anche, con grande abilità, più ruoli - e a una serie di trovate a raffica, alcune francamente geniali. Come, per esempio, l'ìdea di trasformare un'intero episodio - il quarto - in una sorta di omaggio a "Nodo alla gola", con tanto di cadavere nella cassapanca, investigatore (?) che arriva sulla scena e un lungo, interminabile piano sequenza che occupa l'intera puntata, proprio come nel film originale, l'unico girato da Alfred Hitchcock senza stacchi.
Omaggiando il genere horror - a tratti, la serie fa davvero paura e Stephen King è citato di continuo - il musical - esilarante una scena ambientata in un museo delle cere dove le statue dei più famosi serial killer si animano e suggeriscono, cantando, a uno dei protagonisti il modo giusto per uccidere - e qualunque altro genere venga loro in mente, Shearsmith e Pamberton riescono anche a farci pensare, a commuoverci per le vicende dei loro strambi personaggi e a farci ridere, in alcuni casi, fino alle lacrime.
Sbracata, irriverente, goliardica, ma anche profondamente drammatica e intelligente, "Psychoville" è, a parere di chi scrive, una serie che va assolutamente vista, soprattutto da tutti coloro che, come me, si sentono, da anni, orfani dei "Monty Python", gruppo a cui i due autori/attori chiaramente si ispirano.

Con colpevole ritardo



















E' con colpevole ritardo che, ieri, ho visto "Shadow" di Federico Zampaglione. Purtroppo, a causa la solita insensata distribuzione italiana non ero riuscito a beccarlo al cinema. Nei pochi giorni in cui era rimasto nelle sale, non mi trovavo a Roma e in provincia, dove vivo, non è mai arrivato, così mi sono dovuto accontentare di vederlo in DVD.
Beh, devo dire che mi è piaciuto. I difetti presenti soprattutto nella sceneggiatura, sono molti meno rispetto agli innumerevoli meriti. Ci sono alcuni momenti in cui il film gira un po' a vuoto - tipo la morte dei due cacciatori - a cui, però, fanno da contraltare: una bellissima fotografia, un'impressionante colonna sonora, molte scene che fanno veramente paura, una regia che non ti aspetti - la passione di chi ci ha lavorato e la conoscenza che Zampaglione ha del genere trasuda da ogni singolo fotogramma e la parte nei boschi è di altissimo livello - e un cattivo davvero spaventoso e spettacolare.
Il film inizia come "Un tranquillo weekend di paura", prosegue come "Hostel" e finisce come... beh, questo non ve lo posso proprio dire.
Malgrado questo apparente patchwork, Zampaglione riesce a trovare una sua cifra stilistica e porta a compimento, tramite un finale non improvvisato, un discorso interessante sulla guerra e sulla violenza. Dico "finale non improvvisato" perché, contrariamente a quanto scritto da molti recensori, gli indizi per arrivare alla verità ci sono tutti e sono sistemati con cura nel corso del film: il finale funziona, quindi chi se ne frega se ricorda da vicino quello di un altro film?
Insomma, era da molto tempo che non mi capitava di vedere un film horror italiano di questo livello: non so se questo sia segno di qualcosa oppure se - visti i risultati al botteghino interamente imputabili alla distribuzione - rimarrà solo una (interessante) meteora. L'unica cosa certa è che ieri, da appassionato e maniaco del genere, mi sono proprio divertito.

martedì 16 novembre 2010

Il cimitero di Praga

















Malgrado gli impegni e la mia cronica mancanza di tempo, l'ho divorato in due giorni. E ne valeva la pena.
"Il cimitero di Praga", oltre ad essere un libro necessario e puntuale - anche per le analogie con la cronaca di questi mesi e la cosidetta "fabbrica del fango": è incredibile che Eco abbia iniziato a scriverlo 5 anni fa - è anche molto bello, colto, divertito e divertente. E contiene un discorso davvero interessante su come si possa manipolare sia la Storia che ogni tipo di storie.
La trama la conoscono tutti: ripercorre la vita immaginaria di Simonino Simonini, individuo spregevole che compone, a pagamento, ogni sorta di falso, compresi i nefasti "Protocolli dei savi di Sion", di cui anche il grande Will Eisner ha ripercorso, nella sua ultima opera, la storia.
Simonini è un "odiatore" - se mi perdonate la parola - come ce ne sono tanti anche ai nostri giorni. Misogino fino all'inverosimile, antisemita e sostanzialmente stupido - come tutti i razzisti, secondo le parole dello stesso Eco - è, però, un protagonista di quelli che non si dimenticano.
Il libro conferma quello che per me rimane ancora, a distanza di trent'anni da "Il nome della rosa", un mistero: come possa uno dei pochi veri intellettuali che ci ha donato la modernità italiana, che scrive libri obiettivamente difficili, poco consoni al gusto del pubblico, e che va pochissimo in televisione, scalare in questo modo le classifiche di vendita.
Ecco qualcosa che, come le prime due puntate di "Vieni via con me", in questi ultimi giorni non mi hanno fatto vergognare di essere italiano.

PS: Consiglio a tutti coloro che vogliano passare 40 minuti in compagnia di Umberto Eco il bellissimo videoforum, condotto da Silvia Luperini e Antonio Gloli, che trovate sul sito di "La Repubblica", QUI.

mercoledì 10 novembre 2010

Il califfo


















Ho conosciuto Franco Califano un paio di anni fa. Aveva scritto la sceneggiatura per un film intitolato "Vacanze a Rebibbia" - una sorta di "Vacanze di Natale", ma ambientato in carcere - e l'aveva proposta a un produttore amico che mi aveva chiamato per un parere.
La sceneggiatura era divertente, piena di gag che si ispiravano all'esperienza carceraria dell'autore, ma non aveva una vera e propria struttura.
Ci eravamo accordati per riscrivere la sceneggiatura senza stravolgerla, ma dandole un senso cinematografico.
A questo punto vorrei fermare la cronaca per dire due parole sul Califfo.
Prima di incontrarlo non avevo una opinione su di lui e sulla sua opera: sempre troppo distante dai miei gusti musicali. Ho ascoltato con attenzione le sue canzoni e ho trovato cose molto belle - "Minuetto" e "La musica è finita" portate rispettivamente al successo da Mia Martini e da Ornella Vanoni, su tutte - ma ad impressionarmi più favorevolmente sono stati alcuni dei suoi monologhi, come "Piercarlino".
Poi ho capito che cosa significava Califano - al di là dei miei gusti - per un sacco di persone.
Una sera che eravamo insieme in pizzeria, ho assistito a una vera e propria processione di gente che voleva fotografarsi con lui, che gli faceva i complimenti, che desiderava "confessarsi" e scambiare due parole con il "Maestro". Quando siamo usciti dalla pizzeria, la nostra auto era bloccata in un vicolo e una signora, riconoscendo Califano, ci ha aperto il cancello della sua villetta per farci fare manovra... e poi si è fermata a chiacchierare un po' con lui, fecendo uscire dalla casa anche il marito e figli.
Califano è un uomo generoso, disponibile e simpatico, molto diverso dal personaggio pubblico che negli anni, anche per colpa sua, gli si è appiccicato addosso.
Poi la sceneggiatura non è andata in porto: Califano era molto resistente ai cambiamenti e, anche a causa di altri impegni da parte mia, ci siamo poco a poco allontanati. So che ha provato a riproporla ad altri produttori, senza successo e me ne dispiace: con un po' di lavoro avrebbe potuto, comunque, venire fuori un buon film.
Di Califano e dei nostri incontri, continuo a serbare un ottimo ricordo.
L'altro giorno quando ho letto che in seguito a gravi problemi di salute, non poteva più fare serate e che invocava la legge Bacchelli, mi sono molto addolorato.
Sinceramente non so se a norma di legge abbia diritto o meno a questo sussidio - percependo comunque un reddito dai proventi SIAE, credo, giustamente, di no - ma ho trovato oltremodo insultanti e insopportabilmente moraliste le parole del presidente del Codacons:
'Il cantante afferma di percepire ogni semestre dalla Siae circa 10mila euro di diritti d'autore, ossia 20mila euro su base annua. Se pensiamo che in Italia il 71,9% delle pensioni non supera i 1.000 euro mensili (12.000 euro annui) e che quasi un pensionato su due (45,9%) vive addirittura con meno di 500 euro al mese (meno di 6.000 euro annui), direi che il signor Califano non se la passa certo male'
E' la solita politica del mischiare capre e cavoli, di quelli che pensano che se tu hai un problema c'è comunque chi ne ha uno più grave del tuo, quindi a che pro risolverlo? Un atteggiamento che conduce a quel "così fan tutti", buono per ogni occasione, soprattutto in politica. Invece no, le differenze e le sfumature esistono, eccome!
Califano, comunque la si pensi, è un artista che ha dato qualcosa - EMOZIONI, dice nulla questa parola così sottovalutata di questi tempi? - a parecchia gente. Mi fanno sorridere tutti quelli che in questi giorni hanno scritto che non ha mai prodotto "cultura": che provino a chiederlo ai suoi numerosissimi e devoti fans?
Io credo che Franco Califano meriti più rispetto, soprattutto ora che si trova in difficoltà.
Bene ha fatto quindi Renata Polverini - da cui politicamente non potrei essere più distante - a provare a risolvere il problema, incontrandolo e cercando di capire come stiano realmente le cose, al di là di ogni facile moralismo e di qualche sbracato lancio di agenzia.

domenica 7 novembre 2010

I morti camminano sul serio











Una serie a fumetti di culto da cui partire. Un Kinghiano di provata fede come Frank Darabont - regista del bellissimo "Le ali della libertà" e de "Il miglio verde" - alla sceneggiatura e alla regia dell'episodio pilota. Il leggendario Gregory Nicotero - "La casa II", "L'armata delle tenebre", "Dal tramonto all'alba", "Kill Bill I e II", "Hostel I e II" solo per citare alcuni dei film più noti a cui cui ha prestato il suo visionario talento negli ultimi 25 anni - agli effetti speciali e al make-up. Una rete come la AMC, che ci ha donato serie come "Mad Men" e "Breaking bad" a sovrintendere il tutto. Poi, last but not least, gli zombie, non quelli adrenalinici e insopportabilmente veloci di Danny Boyle, ma quelli veri e esistenzialmente inquietanti, di George Romero.
Le premesse per farci ben sperare c'erano tutte... e sono state mantenute.
L'episodio pilota di "Walking dead" andato in onda lunedì scorso su FOX - canale 110 della piattaforma SKY - in contemporanea con gli Stati Uniti, è davvero molto bello. Teso, angosciante e abbondantemente splatter, com'era giusto che fosse. Poi nelle puntate che seguiranno, verranno approfondite anche tutte le vicende personali dei protagonisti - qui solo introdotte - ma quello che c'è già stato basta e avanza.
Per noi che rivediamo con gioia "La notte dei morti viventi" e "Zombie" ogni volta che possiamo e che ci divertiamo ancora come dei bambini a giocare a ogni nuovo "Resident Evil" che esce, questa serie è davvero una grande gioia.

José Saramago



















Amo i romanzi di Jose Saramago - "Il vangelo secondo Gesù Cristo" e "Cecità" su tutti - e mi sono molto emozionato a leggere oggi su "La Stampa" uno dei suoi ultimi scritti, realizzato poco prima della morte per il volume "Parole di libertà", edito da SE.
Il testo completo lo trovate QUI.
In questa sede volevo riportare due frammenti che mi hanno colpito e che hanno molto a che fare con la scrittura, qualunque tipo di scrittura.
Ora, la vita è fatta di piccole e minuscole occupazioni. Una di queste è scrivere. Dal punto di vista di Sirio, neppure il viaggio dalla Terra alla Luna assume tanta importanza. Ma qui, sulla superficie terrestre, mettere una parola davanti all'altra, e in particolare in questo bugigattolo del pianeta, si rivela come operazione molto importante. Positiva o negativa che sia. Sarà positiva se ciascuna parola verrà soppesata e misurata, riconsegnata al suo vero valore – e non usata come cortina fumogena o accesso al museo di anticaglie. Sarà positiva se ridesterà in chi legge un'eco che non provenga dall'oscura condiscendenza all'illusione e all'inganno che sonnecchia sul fondo dell'inerzia in cui siamo vissuti. Sarà positiva se... E così via, senza ulteriori spiegazioni.
E ancora.
La Terra prosegue il suo cammino avvolta in un clamore di forsennati sbraitanti, ululanti, avvolta anche in un docile mormorio, smorzato e conciliatore. C'è di tutto fra i coristi: tenori e tenori leggeri, bassi, soprani dal do di petto facile, baritoni imbottiti, mezzo contralti. Negli intervalli, si ode il suggeritore. E tutto ciò stordisce le stelle e perturba le comunicazioni, come le tempeste solari. Perché le parole hanno smesso di comunicare. Ogni parola è pronunciata affinché non se ne oda un'altra. La parola, anche quando non afferma, si afferma. La parola non risponde, né domanda: ammassa. La parola è l'erba fresca e verde che copre le cime aguzze dell'invaso. La parola è polvere negli occhi e occhi bucati. La parola non rivela. La parola maschera. Per questo occorre mondare le parole affinché la semina si trasformi in raccolto.

sabato 6 novembre 2010

Ragionamento non richiesto sulla televisione generalista in Italia









Tra le preoccupazioni delle reti e dei produttori televisivi italiani, quella di non offendere nessuno occupa una posizione di alta classifica.
Per tre stagioni sono stato lo story editor di "Rex" e ho scoperto che esiste un apposito ufficio della polizia di stato che, quando in una serie sono presenti dei poliziotti, controlla le sceneggiature. Può succedere che questo ufficio chieda agli sceneggiatori di cambiare qualcosa di lesivo per il buon nome della polizia: tagliare una scena, eliminare un personaggio o modificare qualche dialogo. Niente di scandaloso considerando che la polizia è importantissima durante le riprese: per fornire mezzi (auto, barche o elicotteri) e divise, per far chiudere una strada, ecc. Alla fine si tratta di qualche piccola concessione in cambio di un enorme aiuto: quale produttore non sacrificherebbe un po' della libertà del suo sceneggiatore per tutto questo?
Poi ci sono il Moige e il Codacons, bestie nere di ogni rete. Non si sa mai quando e dove potranno colpire e questo tarpa le ali, oltre che alle reti nel momento in cui approvano una serie, anche agli sceneggiatori che la devono scrivere. Di recente il Moige si è lamentato per le scene di nudo in "Terra ribelle" e tre anni fa il mio "Rex" aveva subito le proteste del Codacons perché era diverso da quello originale (sic).
Ma non è solo questo: bisogna sempre stare attenti alle minoranze, ai vari localismi, alle sensibilità individuali, prestare orecchio alle esigenze delle casalinghe di Voghera e di Treviso - a tutt'oggi buona parte dello zoccolo duro di Rai 1 - e chi più ne ha più ne metta.
Ci sono temi che non possono essere trattati: la pedofilia per esempio. E ce ne sono altri che viaggiano in libertà vigilata, tipo l'omosessualita, la violenza o la religione se non lo si fa in modo rispettoso e agiografico.
In una televisione governata dalla pubblicità non si possono mandare in onda fiction troppo angoscianti o disturbanti: l'horror è bandito e il finale positivo è - quasi sempre - d'obbligo.
Le necessità congiunte di fare ascolto, incamerare pubblicità e di non scontentare nessuno, spingono le reti a produrre sempre le medesime cose: serie familiari, feuilleton in costume, storie di papi e santi, gialli che nemmeno quelli della settimana enigmistica, storie vere zeppe di buoni sentimenti, biografie annacquate di personaggi famosi: fiction che non solo non sono lo specchio del paese reale, ma non lo sono di nulla se non di loro stesse.
Le eccezioni a questa regola, negli ultimi anni, sono state solo due: "Il commissario Montalbano" e "L'ispettore Coliandro", ma solo perché avevano alle spalle due pesi massimi come Camilleri e Lucarelli e il successo dei romanzi da cui partivano.
Date queste premesse chiedetevi ora quante delle serie televisive americane che vi piacciono potrebbero essere prodotte in Italia?
E chiedetevi perché mai uno sceneggiatore dovrebbe proporre qualcosa di nuovo - ammesso che sia stato in grado anche solo di idearlo - sapendo che, tanto, nessuno glielo metterà mai in produzione?

giovedì 4 novembre 2010

Roma FilmFest












Nell'ultima settimana sono stato a Roma, al festival del cinema. Ho visto svariati film, uno bello - Animal kingdom - un paio carini, gli altri tutti piuttosto brutti e, purtroppo, inutili. L'impressione è che il livello del concorso fosse mediocre; leggermente meglio i film delle sezioni collaterali. Insomma, se proprio vogliamo dirla tutta, niente di paragonabile a un qualunque festival di Cannes, Venezia o Berlino, anche per quanto riguarda l'organizzazione.
Ho visto cose che voi umani non potreste immaginarvi: persone accreditate che rimanevano fuori dalle sale perchè erano stati venduti più biglietti del dovuto, Bruce Springsteen che veniva fatto entrare in sala mentre il pubblico della precedente proiezione defluiva dalla medesima uscita, con il casino che potete immaginare, un film - Social Network - proiettato in una copia doppiata in italiano e senza sottotitoli in inglese, un altro - Carlos - tolto improvvisamente dalla programmazione e sostituito all'ultimo momento da un non eccelso film francese già mandato almeno tre volte nei giorni precedenti.
Però ho anche visto da vicino e quasi toccato due dei miei miti: Bruce Springsteen e Martin Scorsese, quest'ultimo a Roma per presentare una splendida versione restaurata de La dolce vita di Federico Fellini: tre ore di puro e meraviglioso cinema, questo sì.
Ed è proprio di Martin Scorsese l'unico capolavoro che si può vedere alla rassegna, a meno che da qui a sabato non ne saltino fuori altri, cosa di cui, viste le premesse, dubito. Sto parlando dell'episodio pilota di Boardwalk empire - serie scritta da Terence Winter, uno degli sceneggiatori storici dei Sopranos, prodotta dalla HBO e da Scorsese stesso - che, come capita sempre più spesso, pur essendo realizzato per la televisione, è più cinema del cinema vero. Ed è anche il miglior film di Scorsese da parecchi anni a questa parte: da Casinò a detta di chi scrive.
La serie racconta con rigore formale e grande sapienza narrativa il proibizionismo ad Atlantic City intorno agli anni '20. Tra gli attori un grandissimo Steve Buscemi e Michael Pitt, oltre a un'infinità di caratteristi uno più bravo dell'altro.
Chi avesse l'occasione di vederlo non se lo faccia scappare.