Due frasi cu sui sto riflettendo da un po'.
La seconda è di David Mamet: "Lo scopo dell'arte non è cambiare, ma allietare: non ritengo che il suo scopo sia illuminarci. Non ritengo che sia cambiarci. Non ritengo che sia istruirci. Lo scopo dell'arte è allietarci: alcuni uomini e donne (non più in gamba di voi o di me) la cui arte può allietarci sono stati esonerati dal compito di andare ad attingere acqua e di raccogliere la legna. Tutto qui."
7 commenti:
Ciao Stefano,
non c'entra con il post, ma ho appena scoperto che Alan Moore ha scritto un saggio sui fumetti: Writing for comics. Posso chiederti che ne pensi e se lo hai letto?
Salve,
francamente non mi convince nessuna delle due frasi.
La prima è cauta nell'usare il verbo rischiare come ausiliare di finire, ma in realtà è ben evidente che lo usa come pura forma di cortesia :-). Assumiamo dunque che ci sia solo il verbo finire. In primo luogo qual è il discrimine tra commercialità e non commercialità? Esiste, cioè, un'arte che non sia commerciale? Forse, come fenomeno residuale, potrà esserci l'artista che assolutamente non vuole vendere la sua arte (ovvero vederne riconosciuto ufficialmente il valore), ma non credo rappresenti una figura diffusa: l'arte per essere ricosciuta come tale deve essere commerciale, vedersi assegnato un valore, un "prezzo".
Potrà esistere se mai l'artista conscio della difficoltà per il proprio modo di essere artista di incontrare il gusto di un pubblico vasto e quindi conscio del suo essere di nicchia; come d'altro canto quello che non è in grado di accettare il fatto e si vede come artista incompreso. Ugualmente l'artigiano che sforna prodotti di serie modellati sul gusto comune (o anche dozzinale) potrà essere conscio di questi fattori e soddisfatto del proprio successo commerciale o invece soffrire per il fatto che la sua arte non è riconosciuta da chi accredita il prodotto artistico come tale. Anche lui può essere un artista incompreso.
Ciò detto, e che quindi tutta l'arte, se vogliamo, tende al meretricio :-), l'eterno zitellaggio di una supposta arte non commerciale si verificherebbe non se essa non non giungesse in modo diretto e massiccio sulla platea popolare, ma soltanto se essa non si infiltrasse, attraverso l'opera di tutti gli altri artisti, più o meno commerciali, che non la recepissero e riproducessero rielaborandola, e quindi facendola entrare nella cultura condivisa.
La seconda frase è onestamente mortificante. Non perché scopo di un prodotto artistico non sia e non debba essere allietare, ma perché semplicemente denota una completa cecità storica e antropologica. Da millenni, forse decine e centinaia di millenni, ciò che l'arte fa - OLTRE ad allietarci - è proprio cambiarci e illuminarci. Cambiare le nostre percezioni del mondo, di noi stessi, delle nostre relazioni con gli altri e con l'ambiente che ci circonda: interpretare, veicolare, perfino guidare, cioè, i mutamenti sociali e culturali. Illuminarci sui nostri sentimenti, schemi di pensiero, mitologie. Configurarsi quale momento di condivisione di esperienze emotive e sociali. Vedere la funzione dell'arte limitata alla sua dimensione ludica (che è quella vicaria, l'eccipiente zuccheroso attraverso il quale essa si diffonde) è a dir poco limitante.
V.
Prima devo una risposta a Marco.
Purtroppo non ho ancora letto il saggio di Alan Moore e quindi non so che cosa dirti.
Posso, però, offrirtii un parere non richiesto sull'autore inglese.
FIno a "From Hell" compreso pensavo che Moore fosse un genio. Poi sono arrivate le cose con la "Image comics" e, soprattutto,la serie "America's Best Comics" e mi sono pesantemente ricreduto. Trovo i vari "Tom Strong", "Lega degli straordinari gentiluomini", "Tomorrow Stories", "Promethea", ecc - con l'unica eccezione di "Top 10" - davvero brutti e inutili.
Ed ora passo a Vincenzo.
Devo dire che la discussione si fa interessante.
E io, prima di esprimere un parere personale, vorrei rilanciare proponendo alcune righe che amplificano e forse spiegano meglio il pensiero di David Mamet.
Il brano già citato fa parte di un articolo più ampio dedicato specificatamente alla sua attività di drammaturgo. Dice Mamet, prima di arrivare alla conclusione riportata nel suddetto post: "Ormai sono più di trent'anni che lavoro con il pubblico, in differenti sedi. E non ho mai trovato un pubblico che non fosse collettivamente più in gamba di me e che non mi battesse ogni volta sul tempo.
Questa gente mi ha pagato l'affitto per tutta la vita. E io non mi considero superiore o diverso da loro e non ho desiderio di cambiarli. Perché dovrei farlo e come potrei farlo? Non sono diverso da loro. Non so nulla che non sappiano anche loro. Un pubblico (un popolo) può essere costretto con una menzogna, una bustarella o una pistola: gli si possono dare ordini e predicare sermoni. Può farlo chiunque abbia una pedana su cui salire e un po' di mancanza di rispetto. Ma in tutti questi casi il pubblico subisce un abuso. Non viene "cambiato" viene costretto.
I drammaturghi che vogliono cambiare il mondo assumono una posizione di superiorità morale nei confronti del pubblico e permettono al pubblico di assumere la stessa posizione di superiorità nei confronti di coloro che nel dramma non accettano le idee del protagonista."
Ciao Stefano!
Quando un narratore (non importa che sia uno drammaturgo, uno sceneggiatore di fumetti o altro) si produce in uno sfoggio di umiltà come quello di Mamet, sta mentendo :-). Dirò anzi di più: se per caso non lo stesse facendo, allora sarebbe un pessimo narratore. Per poter narrare si deve ritenere - diversamente da altri - di essere in grado di plasmare la percezione della realtà, di narrare appunto il mondo e l'uomo. E quindi di farsi tramite di questa narrazione/invenzione del mondo tra la realtà e gli altri esseri umani. Se davvero si dovesse scoprire di essere inferiori al proprio pubblico si dovrebbe trarne le conseguenze. Non dico, sia chiaro, il narratore ***è*** superiore al resto dell'umanità, ma che non può non ritenere di esserlo.
V.
Mamet è un grande narratore, su questo non credo che ci siano dubbi. Quindi sta mentendo? Io non credo. Credo, invece, che un qualunque narratore non debba necessariamente ritenersi migliore del suo pubblico. Può farlo, certo, ma non è detto che debba essere per forza così.
Il fatto che un narratore possa essere in grado di "plasmare la percezione della realtà, di narrare appunto il mondo e l'uomo. E quindi di farsi tramite di questa narrazione/invenzione del mondo tra la realtà e gli altri esseri umani" non lo rende, necessariamente, migliore delle persone che fruiscono della sua opera.
E ti dirò di più, Nella mia carriera ho conosciuto e ho lavorato con parecchia gente che fa questo mestiere: spesso grandezza ed umiltà vanno di pari passo e ti sto parlando di personaggi come Francesco Guccini - conosciuto - e Dario Argento - lavorato con - non bruscolini.
Altrettanto spesso mi è capitato di imbattermi in gente che non aveva mai pubblicato nulla - non dico di significativo, ma nulla e basta - che avevano un ego smisurato e uno snobismo senza limiti.
Quella di Mamet è solo una visione personale della cosa, non credo che possa essere generalizzata.
Mamet è sicuramente un grande narratore, ed essendolo quindi sta mentendo :-). Però io non ho scritto che un grande narratore sia migliore del suo pubblico, ma che per essere un grande narratore deve crederlo :-). Mi dirai che molti narratori sono insicuri sulla loro arte (si veda Kafka per tutti), ma a parte l'ovvietà del fatto che eccezioni sono sempre possibili, al fondo dell'insicurezza di tipo kafkiano può esserci, e credo proprio ci sia, la convinzione che la propria arte è talmente alta da essere al di fuori della portata degli altri e, in quanto inattingibile, rifiutata. E il rifiuto è inaccettabile per un ego sovradimensionato. Non che sia un processo necessariamente conscio.
A scanso di equivoci: nulla di quanto sopra ha valenza negativa.
Mi dici che ci sono grandi narratori umili come Guccini o Argento. Ma l'umiltà personale nulla a che fare con l'umiltà (presunta) del narratore verso il pubblico. Né tanto meno con il rispetto del pubblico. Il narratore, appunto, narra. Ovvero narra il mondo. Il pubblico riceve la narrazione. Il rispetto per il pubblico viaggia attraverso l'onestà intellettuale con il quale il narratore modella il mondo per il pubblico; ma se il narratore non sentisse di essere il depositario del potere di modellare il mondo (ciò che il pubblico che riceve la narrazione ovviamente non fa) la sua narrazione sarebbe debole e insicura. E lui sarebbe un pessimo narratore.
Ma del resto che Mamet stia mentendo - o anche solo sbagliando - ce lo dice l'errore antropologico che riporti nella chiusura del tuo post iniziale: "Lo scopo dell'arte è allietarci: alcuni uomini e donne (non più in gamba di voi o di me) la cui arte può allietarci sono stati esonerati dal compito di andare ad attingere acqua e di raccogliere la legna. Tutto qui."
I primi narratori del genere umano sono i cacciatori. O nel fiore della loro attività, quindi in pratica i capi della comunità, cui ovviamente spettava il compito di modellare la percezione del mondo che la comunità aveva; oppure da anziani, e in quanto tali sì esonerati dai compiti gravosi, ma perché la loro superiorità si estrinsecava in una saggezza accumulata negli anni e testimoniata dalla loro sopravvivenza in tarda età. A loro si aggiungeranno in seguito i narratori per eccellenza: gli sciamani e gli stregoni, ovvero i modellatori istituzionali del mondo. Tratto che permane: il prete ancora oggi gode del massimo status di narratore.
Tutti costoro sono migliori di coloro ai quali narrano? No, l'ho già detto e lo ribadisco: ma devono credere - e crederlo davvero - di esserlo. Altrimenti sono pessimi narratori.
V.
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